QUEL MEZZOGIORNO A VINCA
di Enzo Droandi
Erano rannicchiati, stretti l'uno all'altro, dietro un sasso alto poche spanne piazzato sullo spigolo del monte, sotto il solleone rovente che batteva a picco sullo sperone degradante di Vinca. Li vidi da lontano; sembravano un unico fagotto di color verde posto fra la decisa linea di pietra rapidamente discendente e l'azzurro del cielo.
Tremavano ambedue per la febbre e quel calore opprimente del mezzogiorno senza ombre non placava né il loro freddo né la fame ed aveva già arrostito e piagato i loro volti sbiancati e gentili. Di uno capii, da un foglietto che scrisse, che era di New York. Mi sdraiai sul sasso, vicino a loro, per essere meno visibile, e spiegai loro che si trovavano proprio sulla linea del fronte nemico, in un punto troppo esposto anche rispetto al più disattento degli osservatori e, per di più, vicino ad un sentiero che, di notte, era usato dalle pattuglie che andavano al piano a contrastare l'avanzata.
Affamati, avevano mangiato vesce bianche e vesce lupaie, quelle striate di marroncino, e bacche rosse e gialle, e more rosse acerbe, di quelle che all'alpe maturano alla fine dell'estate; poi avevan trovato un ciliegio selvatico in frutto, con le piccole guisciole acidule che avevano divorato, gravide di un liquido quasi oleoso; e, poi, ancora, avevano ingurgitato insipide erbette e radici selvatiche. Solo per la sete non avevano avuto problemi.
Abituati alle diete bilanciate delle loro case e del loro esercito, si erano ingegnati a cercar di catturare qualche uccello, ma senza successo perché non erano capaci a costruire una trappola diabolica con una lastra ed una bacchetta di legno, con una bacca per esca.
La febbre li aveva assaliti nella notte precedente e li aveva stremati.
Giovani e robusti come erano, e ben vestiti, ora apparivano disfatti, incerti nei pochi movimenti, balbettanti e disturbati da nausee. Detti loro una grossa patata lessata per me dalla gobba dell'Anciolina, una patata ancora tiepida, con la buccia liscia, che li ristorò un pò, forse anche per quel poco di sale che conteneva.
Non erano pieni di paura, come in un primo tempo avevo creduto, ma non erano materialmente in grado di camminare e neppure di prendere decisioni.
Proposi che ci nascondessimo meglio, magari dietro un muretto di quello che era stato per secoli il romitorio dell'alpe di Vinca, per aspettare il tramonto e per passare, di notte, la linea del fronte, calando lungo la ripida del torrente, perché sui costoni vicini c'erano soldati, e per evitare sentieri e la pericolosa mulattiera di Sercognano.
Mi fecero capire che non avevano forza per muoversi, e rimasi lì, con loro, rannicchiato dietro quel sasso alto poche spanne, quel sasso che, molti anni dopo, cercai di ritrovare, e che è stato forse cancellato dal rimboschimento di Vinca.
Vinca, che per centinaia di anni aveva ospitato e protetto tanti eremiti, tanti monaci che volevano essere vicini a Dio con i loro pensieri, mentre a valle gli uomini aderivano alla terra e tanti pellegrini esausti, e migliaia di romei che, perduta la via a loro dedicata, o la francigena o quella del sale, vagavano a frotte lungo la Sancti Petri, cercando la direzione della tomba dell’Apostolo e, più tardi, della Cattedra dispensatrice di indulgenze parziali o plenarie, ed, ancora uomini in odore di santità che anche dalla umiliazione e dalla penitenza del corpo attendevano l'anticipazione della beatitudine, ora nascondeva noi, noi tre.
Noi tre tapini schiacciati sulla scogliera di Vinca, incollati alla poca terra che Iddio ha messo fra le pietre ad eterna tutela dei resti mortali di quegli antichi eremiti altissimi nella statura, spartani nei costumi, pazzi di Dio, noi tre tapini confusi ai monumentali scheletri affioranti fra il muschio asciutto.
Per me l'attesa di quel lungo tramonto fu lunga quanto il secolo di un eremita, agitata come la solitudine del monaco, faticosa come l'ultimo tratto di strada di un pellegrino, trepida della speranza del romeo, penosa per il corpo rattrappito circondato dal sole rovente, ma anche inebriante per la visione dell'universo che Vinca offriva.
Sopra di noi ci furon degli spari, a raffica, ma lontani e poco convinti; dallo sperone di pietra che era alla nostra destra partì un'altra raffica. Pensai che producessero quei rumori per convincere se stessi che c'erano, che non erano soli, che erano lì, in quell'universo di Vinca tanto bello e tanto vero da apparire un sogno. Davanti alle postazioni pietrose non c'era nemmeno un coniglio selvatico, non c'era neppure una quaglia ingentilita; e loro di tanto in tanto sparavano. Se ci fossero stati un elefante o un ramarro od anche uno sfuggente scoiattolo, li avrei visti, perché lì tutto era allo scoperto, in quel bisciaio commentato da muschio vernino essicato dal sole; eppure sparavano per far capire a se stessi che erano vivi, davanti a quel magnifico mondo.
Anche quello di New York ebbe il coraggio di voltarsi, di svincolarsi dalla pietra alta poche spanne, di rilassarsi sulle pietre taglienti. Mi chiese un'altra patata salata e lessata per me dalla gobba dell'Anciolina, ed io gli detti l'ultima che avevo, bella, bislunga, con la sua pelle liscia come la seta. L'altro, invece, rantolava ancora e si contorceva.
Perché dalle postazioni che erano sui costoni non sparavano a quel fagotto di stracci che si muoveva dietro quel sasso? Perché non sparavano a me ed a quelle che erano state due belle uniformi militari verdastre? Allora pensai che non ci avevano visto; ora mi domando come avessero fatto a non vedere noi che osservavamo loro, che guardavamo quella testa coperta dall'elmo e quella col berrettino a visiera, a non vedere noi tre, intrusi sulla prima linea del loro fronte. O ci scambiarono per loro compagni di pazzia che stavan lì, sotto il sole, ad attendere come loro il fresco tramonto e la possibilità di calare al piano a sparar fucilate? Oppure la loro vista era annullata dal biancore della luce zolfina di quel mezzogiorno senza termine?
Eppure il sole si muoveva, non si era fermato; lo vedevo da quel brocco secco che proiettava un filo d'ombra. Oppure era l'ombra che si muoveva, che diventava più lunga di secondo in secondo? Ed era male che l'ombra si muovesse perché quelli lì, quelli della postazione di destra, dello sperone di pietra, avrebbero forse sparato a qualunque cosa in movimento.
Mi misi a guardare i monti di sotto velati dalla caligine estatina, indovinavo la torre di Galatrona, seguivo la linea gibbosa delle colline da San Pancrazio a Montarfoni ed alla punta da pandizucchero di San Zio. Tutto, nella Sarna che avevo a destra, era immobile.
Avevo sete.
Fame no; perché avevo mangiato la sera prima, e molto bene, nella tenda degli ufficiali a Vitereta, con pane bianco, margarina, bacon, thè, tavolette di cioccolato, con crema di menta e birra e, poi, ancora, pane bianco e coniglio fritto e pane bianco e pomodori mezzi acerbi; la mattina precedente, quando avevo passato il fronte per la prima volta, in giù, giù al Sorbo, il mugnaio del Borro mi aveva cotto due uova al pomodoro, ben salate; ed avevo messo in bocca un po’ di sale, che mi era mancato per giorni e giorni.
Non avevo fame, tanto più che, ripassato il fronte in senso inverso, avevo mangiato le patate lesse e salate della gobba dell'Anciolina.
Avevo sete, invece, molta sete, e mi sembrava di sentire il rumore del torrente che da Vinca precipita a valle, giù, per il canalone ombroso e fresco.
Sognai un pomodoro acerbo, anche senza sale, ed una mela roggia, di quelle acidule. Ma fui distratto da un suono lontano di campane, quelle della chiesina del Borro: era ancora mezzogiorno, quel mezzogiorno senza termine, quel mezzogiorno che non trascorreva, che non faceva mutare il tempo.
Subito si sentirono anche le campane di Campogialli e, lontanissime, quelle di Castiglioni.
In un mondo nel quale, ancora, il tempo del giorno e della notte era scandito dalle campane, tutti conoscevano le campane dal loro suono.
In città c'erano quelle piene, maestose, potenti della Cattedrale, quelle severe di Pieve, quelle argentine, vicine e familiari di San Michele, ed il campanello del boia, che era sul campanile di Santagostino.
Anche in campagna si riconoscevano le une dalle altre, quelle della Traiana, di Campogialli, di Vitereta, del Borro, di San Giustino e quelle dal suono profondo, di Faeto.
Le riconobbi tutte le mie campane, una ad una, anche mentre suonavano
insieme l'inno alla Vergine di quel mezzogiorno eterno di Vinca.
Ma quelle di San Giustino, di Faeto e di Ge1lo Biscardo non si sentivano. A destra, dal Paretaio alla Sarna, da Faeto alle Casacce, era tutto fermo, tutto bloccato; non si vedeva niente in movimento, non un uomo in. un campo, non una ragazza che esce dal paese, non un vitello al pascolo. E le campane che erano state di Don Dante di Faeto, sacrificato undici giorni prima da soldatacci, erano mute in quel mezzogiorno.
A sinistra, là, verso Gello e la Galluzza, sù più in alto, verso Pontenano che non si vedeva, coperto come è dal poggio mondo delle Palmoline, tutto era fermo, tutto bloccato. E le campane di Don Antonio di Gello erano mute in quel mezzogiorno senza fine.
Guardai verso valle e vidi che anche San Giustino era fermo, senza panni di bucato sventolanti al sole, senza movimento sulla strada e sulla via di sotto, senza il fischio della sirena della filanda, senza Bastogi che bada che le pecore non mangino i pampini delle viti. E le campane di Don Pietro erano mute, in quel mezzogiorno.
Più a valle ancora, invece, tutto era in movimento.
Per la diritta del Borro, che da Vinca si vede come da un aeroplano, passavano carri armati ed altri automezzi; alla Casella c'erano panni stesi ad asciugare, attorno alle case c'era gente affaccendata, e gente c'era nei campi, sulle aie, nei recinti del bestiame, e c'era chi mieteva il grano salvato, chi accatastava i mattoni tratti dalle macerie della casa distrutta, chi creava una via di arroccamento vicino al ponticello disfatto, chi bendava il cavallo ferito, chi coglieva le mele; e dai camini usciva il fumo della fascine di chi preparava finalmente il forno per il nuovo pane. E le campane di Don Quirino di Castiglioni, di Don Pasquale del Borro, di Don Egisto della Traiana, ed anche quelle di Don Emilio di Campogialli, che era stato ucciso dai ribelli, suonavano, in quel mezzogiorno, suonavano come a festa.
Da Vinca si vedeva bene dove finiva la terra di nessuno, non per la presenza di carri armati, ma per il contrasto fra una terra abitata e brulicante ed una terra ferma e bloccata, come deserta. Di là gente rimetteva a posto i fili fra i paloni di legno della corrente elettrica c’erano due uomini che a Poggiano accomodavano il tetto della casa sfondato da una cannonata, una donna che spennava un pollo, una massaia che tagliava erba per i conigli salvati dalla razzia, e perfino Don Giuliano di Micciano, che, perduti i maiali rubati dai soldatacci e salvate le pecore, doveva darsi da fare per non farle mangiare tutte dai nuovi arrivati, che odiavano i maiali e volevano pecore ed agnelli, e, magari, un capretto cornuto.
Riuscivo ad immaginare la Carlina Permoli che, al Borro, annaffiava i gerani mentre ascoltava le campane di Don Pasquale, Buro di Poggipietri che traversava con l'asina la strada bianca che segnava la prima linea e non stava più gobbo dietro la siepe, ma dritto come un fuso perchè era libero, e perfino la mia cara zia Ginevra che lassù, nelle case di Giustino di Caneto, era costretta ancora a nascondersi a quei soldatacci spersi e stanchi. Riuscivo anche ad immaginare il Neno del Meliciani che, lassù, alla Motta vecchia, aiutava la Mamma, l'Ornella, la Giovanna e tutti a passare il fronte alle prime ore d'ombra.
Era come se il nastro bianco della tortuosa via principale che Buro di Poggipietri aveva attraversato e che segue la linea altimetrica dividesse due mondi: di qua noi nascosti, la villa della Grotta bruciata e deserta, la casa di Corsucci vuota e senza fumo dal camino, e di là le case di Monticello con la gente che sistemava il fieno e la Maria dei Giachi che mondava le patate, e la casa del Salvareccio sulla soglia della quale il ciechino dell'Ada accomodava con l'impagliatura nuova una sedia sfondata e la casa del Lungo dove il grosso Swany di Johannesburg beveva vino rosso senza essere preoccupato di doversi tener nascosto.
Quella via bianca divideva due mondi; e solo il suono delle campane di mezzogiorno la superava, inondava la valle silenziosa e ferma, saliva su per i picchi ed arrivava alle sorgenti alte dell'alpe.
Fu allora che mezzogiorno finì, che il tempo riprese a scorrere anche a Vinca, che le ombre si allungarono, che il calore del sole cominciò a diminuire. Una brezzolina leggera precedé il tramonto e le teste dei soldatacci della postazione di destra scomparvero nel bruno dell'aria.
Quello di New York mi disse di andare a valle, di scivolare via, di avvertire che loro due erano lì, a Vinca.
Aspettai il buio, abbracciai quello di New York e lo assicurai che, all'alba, saremmo saliti fino a Vinca; a buio pieno ero a Vitereta, nella tenda degli ufficiali, dove era anche Tonino, mio fratello.
Detti la posizione di Vinca, i nomi dei due fuggitivi e le notizie sui campi minati.
Alla mezzanotte di quella calda notte di luglio mi addormentai dentro un sacco a pelo; ma faceva tanto freddo.
All'alba nell'attendamento eravamo pochi; gli altri, con Tonino, erano già partiti per andare a Vinca.
Quello di New York si chiamava Robert? Si chiamava Robert W. Blumlein di Marpeth, New York?
Non lo so. Non so se quel foglietto giallastro che ancor oggi conservo me lo scrisse lui, oppure se me lo dette uno degli americani della missione militare che era scesa con i paracadute. Una cosa è certa: quello di Vinca era di New York. Con lui vissi quel lunghissimo mezzogiorno a Vinca.