Sei Qui: Home > Storia > Quando venne il nuovo anno

Quando venne il Nuovo anno

 di Enzo Droandi  

Il Natale era passato. Ma alla mezzanotte della vigilia le campane non avevano suonato per la messa, perché agli angoli delle strade c’erano le sentinelle e la ronda. nessuno aveva eretto alberi luminosi di tante fiammelle e solo don Pietro, in canonica, aveva montato un povero presepio con statue grezze e mal colorate; erano state modellate in paese da un fornaciaio, perché le piccole statue di ogni Natale, quelle di Norimberga colorate in celeste e tenuissimi rosa ed avorio giacevano, ben avvolte da stracci, in una cassetta sepolta in giardino e nove piedi di distanza dal pero vernino.

         La ronda batteva il paese lungo ed in largo e, di tanto in tanto, si udiva un rumoroso “Alto là”. Verso la mezzanotte della vigilia (all’ora in cui si avrebbero dovuto suonare a festa le campane) la ronda attraversò la piazzetta ed il passo cadenzato dei sei uomini giunse fino alla soffitta nella quale viveva la famiglia della “vecchia” Amalia.

         “Vengono a prenderti” disse la vecchia al ragazzo. Tutti si strinsero intorno alla finestra della soffitta, una decrepita finestra di legno dipinta di giallo. Invece la ronda passò oltre. L’Amalia ed i “ragazzi” stettero lì, orecchio inchiodato al pannello di legno, ancora un po’.

         Sentirono un cane che abbaiava, forse a qualche ombra e ad un’altra ronda, poi una porta sulla piazza aprirsi e chiudersi, poi un altro picchetto di soldati che calava dalla collina della scuola.

         In quel silenzio nessuno si accorse, in quella notte di Natale, che la mezzanotte era passata da due ore.

         “E’ troppo triste questa attesa” disse la vecchia Amalia. Era così piccola che non doveva stare, come gli altri, piegata, per non urtare la testa contro il tetto della soffitta.

         “Non mi prenderanno” disse Mario.

         Così era passata la notte di Natale di quell’anno.

         Cinque giorni dopo scoppiò un uragano; una di quelle bufere che muovono il vecchio del mulino ad aprire la bocca tremante per lanciare la solita sentenza: “Erano quaranta anni che non si vedeva…”

         Crollò sulla strada il cipresso del ponte, rovinando anche il muro che lo teneva, cadde la capanna di Cabiano ed i fili del telegrafo si spezzarono. Verso l’alba il vento, che aveva abbattuto decine di alberi e di bronche ed aveva sconvolto i tetti delle case, portò al pagliaio di Poggio un carbone del camino della Villa; in pochi minuti l’aia di Poggio divenne un rogo ed anche altri pagliai si incendiarono.

         I soldati non si mossero dal paese. Don Pietro suonò “al fuoco” per diverso tempo, ma il rumore delle campane si perse verso il fiume e si nascose nel frastuono dell’acqua che batteva violenta sulle pietre della cascata.

         Quelli di Poggio, impotenti, assistettero da casa al rogo che divorò anche le due capanne.

         Poi, verso mezzogiorno, il cielo si fece più buio e l’uragano più forte; di colpo il cielo cominciò ad illuminarsi a tratti: era la cabina della corrente elettrica che, pezzo a pezzo, cadeva e scoppiava.

         Stretti l’uno all’altro la vecchia Amalia ed i ragazzi trascorsero due giorni della tempesta nella soffitta che il vento aveva risparmiato.

         La sera dell’ultimo giorno dell’anno la furia si placò e cominciò a cadere neve in abbondanza su tutta la valle.

         Fu allora che Amalia uscì di casa per cercare qualcosa da mangiare, per Mario e per gli altri ragazzi. Li chiamava “ragazzi”, lei, e loro la chiamavano la “vecchia”, ma questo era un modo affettuoso di parlare: l’Amalia aveva cinquant’anni ed i “ragazzi” da quindi a trenta.

         Prima che la “vecchia” tornasse, entrò in casa l’Anna che veniva dalla città, dove lavorava in un ufficio; era una famiglia, quella dell’Amalia, fuggita dalla città perché c’era la guerra. L’Anna portò un pacchetto con dei pezzetti di carne e l’Amalia, quando tornò, mezzo pane nero.

         “Me l’ha dato la donna della cooperativa che ci aiuta sempre. Bisognerà ricordarsi di quel che ha fatto, se si uscirà da questa storia”.

         Quello era un giorno di festa; una festa di guerra, ma senza cannoni, senza battaglia, perché la battaglia era ancora lontana, forse cento miglia.

         In molte case del paese c’era da mangiare, c’era roba in avanzo e grano nelle buche, prosciutti nel camino, la madia colma di pane vino sulla tavola.

         Ma, in casa di Amalia, no. E non c’era neppure la tavola in quella soffitta e da tavola servivano tre assi appoggiate a due “capre” di legno.

         Fu accesa una candela gialla e la stanza si rischiarò; poi fu dato fuoco, per occasione di festa, anche ad una lanterna ad olio.

         Forse erano le venti.

         “Come su cucina questo pezzetto di carne?”.

         “Un pezzetto per ciascuno servirà per riconoscere la festa”, disse Amalia, “perciò aspetteremo più tardi a cuocerla. verso le dieci”.

         Ognuno stava in silenzio, chi seduto sul materasso, chi su una seggiola, chisui tre mattoni che, assieme ad altri, fungevano da focolare. Solo l’Amalia e l’Anna, per rompere quel silenzio di tanto in tanto parlavano.

         “come si cucina”.

         “Non c’è olio. Si abbrustolisce sui carboni”.

         Passò la ronda.

         “Almeno ci facessero far la festa in pace”.

         Mario disse: “non mi faccio prendere”.

         Ed il silenzio ritornò nella soffitta fredda.

         Passò forse un ora.

         “Ricordi gli altri, mamma”, disse uno dei ragazzi.

         “Zitto. Anna dicci piuttosto cosa c’è in città”.

         “La fame e la guerra”.

         Ognuno aveva il pianto in gola.

         Fu l’Amalia la prima a scoppiare a singhiozzi.

         Diceva: “No credevo mai di ritrovarmi a questo giorno”.

         Passò qualche altro minuto; poi la campanella di casa battè sommessamente e qualcuno scese ad aprire. Dopo poco entrò il contadino del Lago.

         “Ho dovuto aspettare per venire. Mi potevano vedere e non posso compromettere i miei.”.

         Aveva portato un pane grosso, di quelli bianchi, delle uova, e tabacco di foglia.

         Un solo cenno dell’Amalia disse quanto le migliori parole non avrebbero potuto esprimere.

         Poi, subito, il contadino del Lago scese sulla strada ed andò via.

         “Almeno riconosceremo la festa”, disse l’Amalia. “Gli altri si sono dimenticati di noi. Specie gli amici. Ma quelli del Lago no”.

         Ricominciò a piangere.

         “Dovermi trovare a questo”.

         Verso le ventidue, pochi minuto prima del coprifuoco, la campanella battè ancora. Era un operaio della fattoria.

         “Il fattore manda questa roba. Buona sera”.

         E fuggì.

         Erano una cassetta d’uva conservata, una bottiglia di olio, un fiasco di vinsanto.

         “Come quello che avevamo in cantina” disse l’Amalia.

         Ma nessuno, ancora, si mosse per cucinare la carne.

         Chi sul materasso, chi sulla sedia, chi seduto si mattoni, ognuno piangeva e pensava.

         Passo ancora del tempo.

         “Non credevo che anche il fattore si ricordasse di noi. ma gli altri amici, la gente….”.

         La roba del contadino del Lago e del fattore era sulle assi della soffitta.

         La prima ad alzarsi fu l’Anna. Accese del carbone sui mattoni e la stanza si riempi di fumo. Fu allora che Mario cominciò a lacrimare come gli altri.

         Poi si alzò l'Amalia.

         “Non ne posso più di questa vita” desse l’Anna, che lavorava in un ufficio in città.

         Era l’unica, di tutti, che poteva lavorare ancora.

         Un po’ di fumo si diradò e l’olio cominciò a friggere.

         Poi ci fu un urlo, uno schianto, e la stanza piombò nel buio, perché lanterna e candela erano caduti a terra.

         Si udì l’Anna singhiozzare ed un rumore di liquido che sgorgava scompostamente. Mario riaccese la candela e l’Anna si buttò, piangendo, sul materasso.

         “Non ne posso più” mugolava.

         La soffitta era piena di afrore del vinsanto sparso in terra e dal puzzo di olio bruciato. Era stata l’Anna, che si era appoggiata ad una delle assi che facevano da tavola, a far cadere tutto.

         Mario ed i ragazzi guardarono le uova del contadino del lago, spezzate, a terra, fra lo sporco del fisco rotto.

         La “vecchia” tirò un sospiro e disse, mettendosi in ordine i capelli: “Spengete la candela, ragazzi, ed aprite la finestra”.

         Dalla piazza venivano le urla dei soldati ubriachi che giocavano in bottega, lo stridulo riso della Delia che brindava con le amiche ed il passo cadenzato della ronda.

         “Chiudete” disse la “vecchia” Amalia.

         Ed uno dei ragazzi chiuse la traballante finestra di legno.

         Verso l’alba i “ragazzi” dormivano tutti. L’Amalia buttò su ciascuno una coperta, ed andò ad aprire la porta.

         Prese i resti del fiasco rotto, spazzò la soffitta senza far chiasso, poi si stese su un materasso. Poco dopo anche l’Amalia dormiva.

Realizzazione siti web ActiveSite.it Cookies
Visitatori: 65