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ERA UN DONNONE ALTO

  di Enzo DROANDI 

 Era un donnone alto chi sa quanti cubiti, grosso ma non sgraziato, robusto ma agile quanto un veliero; il volto mostrava piglio, ma il sorriso sapeva attenuare la smorfia della decisione.

Nata nella miseria e, forse, dalla miseria, delle miserie morali e di quelle materiali aveva conosciuto tutti gli aspetti, tutti i motivi, tutte le conseguenze, anche la tisi da denutrizione, corretta e poi vinta apparentemente con il vino, e l'artrite da umidità bloccata dal lavoro continuo.

Una sola volta in vita sua, e per pochi giorni, ebbe una casa con i muri asciutti: quando per un bombardamento, il terzo, il tugurio nel quale aveva trovato un piccolo spazio si dissolse. Era tanto pregna d'acqua quella tana, che nel crollo non fece polvere. Ma poi anche quella casa, quella con i muri asciutti, era crollata.

Da bambinetta appena maturata era stata venduta per due aquilotti d'argento, dieci lire, ad un vecchio che se la tenne per un pò di tempo. Quando la vendita fu per avvenire, lei, che aveva capito le cose della vita, fuggì da un giovane che le piaceva, spiegò tutto e le si dette, felice come una colomba sollevata dal vento che preme da sotto sulle ali aperte e ferme.

Fu forse la cosa più bella della sua non lunga vita, certo la prima fatta con volontà sua, con convinzione.

Poi si abbandonò ad un altro vento, a quello della rassegnazione, a tutto, al male ed alle malattie, al fuoco ed al vento pungente, all'eccesso ed alla fame, al fuggire, al cercare, al soffrire penato ed a quello invitante e roseo dell'incoscienza e del sogno procurato. Ritornò anche dal vecchio che tanti anni prima l'aveva comprata per primo e che la teneva in una cantinaccia; ma poi riuscì a fuggire di nuovo.

Alla fine trovò un uomo che le dette un po’ di sicurezza non una casa asciutta, un po’ di sicurezza fatta di cose semplici: pane e companatico per restaurare e far tornare asciutto il corpo, legna da ardere per l'inverno e per risvegliare ancora una volta i muscoli, sonno tranquillo e naturale, cure per la tisi e non per inseguire i sogni nell'incoscienza, ed un ragazzo orfano da rallevare con amore e da riparare dall'umido.

Alta, robusta, decisa, oppressa dall'antico ma serena per il domani, riprese a vivere, anche per quel ragazzo orfano. Ma in un bombardamento, il primo, là, al vicolo del Marcianello, quello che va dalla piaggia del Chiavello a Santa Maria in gradibus, un antico terrapieno crollò sull'uomo che le aveva ridato la sicurezza; e lei dové tornare al tugurio umido e condurci anche l'orfano. Ma per poco perché il tugurio si dissolse senza far polvere. Allora ebbe un pezzo di casa, ma per poco, perché anche quella crollò quando le vecchie case medievali di San Niccolò furono colpite, quando le persone che si erano rifugiate nel severo e forte magazzino del Badiali, quello con le volte di pietra squadrata, rimasero come fotografate sui rismoni di carta bianca della tipografia.

Fuggì, con il ragazzo per mano, giù per Seteria, salì sulle macerie della facciata della chiesa di San Pier Piccolo appena crollata, raggiunse la via della Fioraia in tempo per vedere i cinque soldati tedeschi falciati dagli scheggiosi (la testa mozza di uno, racchiusa nell'elmo, era come riversa su di uno scalino ed un caporale era infilzato sulle pietre del selciato da due orribili puntoni di acciaio) e, poi, salì per la piaggia di San Domenico e corse per le campagne vagando per rifugi e capanne, per mesi.

Un po’, sempre con il ragazzo, albergò nei robusti fondi della fortezza con tanti altri fuggiaschi di quella primavera ostile. Per una notte si rifugiò perfino in una delle cappelle del cimitero della Fraternita sventrate dalle bombe, fra i morti antichi e quelli nuovi, dissotterrati a centinaia, dissolti od affacciati alle bare.

A tarda primavera salì al Molin de' Falchi incontrando torme di affamati, poi ridiscese alla Cà dello Stento e trovò un po’ di cibo, pane nero e rapi cotti senza sale, ora a Casa al Diavolo, ora a Pietramala, ora a Cà del Peccato.

Da lì andò via e portò il ragazzo fra la gente che si era rifugiata nelle gallerie della ferrovia appenninica appena disastrata, giusto in tempo per non finire fra i morti di San Severo o nelle fosse di San Polo, fra tutta quella gente squarciata dagli esplosivi e soffocata dal terriccio.

Quando il fronte fu passato oltre la città, ma i cannoni erano ancora a tre chilometri, fra Ceciliano e Puglia, e l'Arno era ancora difeso, ridiscese; trovò un mondo distrutto, da rifare, da rifare nuovo.

Fu allora che compì la seconda scelta della sua non lunga vita, la seconda cosa fatta per volontà sua, con convinzione: lavorò per quel ragazzo orfano che era diventato suo.

Decise di lavorare per quel ragazzo ormai suo, di nascondere a tutti i trascorsi e le malattie, malanni e tragedie, sofferenze e conseguenze, bassezze di anima e di corpo, ferite rimarginate o ancora aperte sulle carni e sui sentimenti, di ritornare nuova e tutta di un pezzo, così come appariva, alta tanti cubiti, robusta, decisa, sorridente.

Andò alla Pescaiola, nella zona dove tanti secoli prima la gente usava coltivare pesci in grandi buche piene d'acqua piovana e di torrente perché da mangiare c'era ben poco, alla Pescaiola che i soldati nuovi venuti stavano bonificando dai tanti ordigni residuati da un enorme treno carico di esplosivi che i soldati appena andati via avevano fatto ardere per notti e giorni ed esplodere pezzo per pezzo, vagone per vagone, lì, sotto il vuoto silos che per anni aveva ospitato la riserva granaria della città. Andò alla Pescaiola perché si sapeva per scienza popolare (i giornali non c'erano e neppure i manifesti perché non c'erano neppure i muri ai quali si sarebbero dovuti attaccare) che i soldati nuovi stavano creando dentro il Foro Boario un grande centro di raccolta per delle loro salmerìe.

Lei andò, credendo di trovare muli, cavalli, cariaggi, barocci grigi, come quelli delle salmerìe dell'esercito nostro, che non c'era più; invece trovò enormi trattori, una grande gru metallica, centinaia di autocarri, ponti di ferro smontati, cannoni impacchettati come in scatole da meccano, contenitori di cibi e di sigarette e di saponi e di birra e di cioccolato grandi quanto vagoni e cataste ben fatte di pane candido alte cinque metri e chi sa quanto larghe e lunghe.

I vetri delle birre erano, orribile a dirsi, da gettar via, nessun deposito e nessun rimborso, c'era scritto, e così anche tutti gli altri imballaggi, che, per lei, avrebbero costituito una ricchezza.

La assunsero subito per dieci lire al giorno, e poi, poco dopo, per cinquanta lire al giorno, cinquanta lire di quelle verdastre di carta cenciosa con le scritte straniere, che perdevan di valore ogni ora senza che la gente se ne accorgesse se le accumulava, ma che rivelavano la verità a chi le spendeva.

La assunsero subito a maneggiare scatoloni di prosciutti affumicati già tagliati a fette, a muovere mezzi quintali di pane candido, a parcheggiare sotto le pensiline del Foro Boario tutte recinte di filo spinato, come se fossero elementi di un campo trincerato, enormi quantità di medicinali, sacchetti di cacao, ballini di uovo in polvere, confezioni di margarina, che lei non sapeva cosa fosse, metri cubi di marmellata, montagne di thè, scatoloni di zucchero, nastri di mitragliatrici, frutti tropicali alla rinfusa, strani complessi di gomma opportunamente avvolti che scoprì essere vocati a conservare sottoterra i corpi dei soldati morti in combattimento o di malattia o per incidenti, e poi, ancora, miele in fusti, cartoni contenenti bottiglie di whisky o sigarette o maschere antigas o fiammiferi o profilattici. Fra tutto questo ben di dio c'erano anche le razioni di sopravvivenza, piccole piccole, quanto robuste di contenuto.

Lei cominciò a lavorare con entusiasmo e scoprì tante cose nuove, e, fra queste, che c'erano tanti tipi di sigarette, ma che tutti questi tipi erano divisi in tre grandi partizioni: sigarette per gli ufficiali, sigarette per i soldati, e quelle per indiani e marocchini.

Queste ultime, per gli indiani e marocchini, sul pacchetto elegante ed attraente, policromo, recavano un grande "V", per "victory"; in realtà erano sigarette che contenevano tabacco conciato con sostanze destinate a reprimere raptus o desideri sessuali del fumatore.

Lì, al Foro Boario, c'era abbondanza di tutto quello che in città e nell'agro mancava, perfino della mitica penicillina, della farina candida, dei profumi, di biancheria per le soldatesse, del sale e di coperte splendide, di salse di pomodoro e di prosciutti lessati, di quarti di bue e di stecchini da denti, di binocoli e di libri in inglese.

Dopo i primi giorni di lavoro comprese che portare al suo ragazzo che aveva fame una scatola di prosciutto affumicato od un pacchetto di biscotti dolci non era peccato; dopo una settimana vide che le centinaia di donne che con lei lavoravano, alla sera, si riempivano di ogni bene del Signore, bene che poi vendevano, più o meno furtivamente, in città.

Cominciò anche lei, nell'intento di accumulare un po’ di quei fogli cenciosi e colorati e con le scritte straniere per il suo ragazzo, per i futuri tempi brutti che sicuramente, pensava, sarebbero ritornati.

La sera si riempiva di roba, sotto le vesti; si era confezionata una sottana con dei tasconi. Fra il bacino e la manica del vestito potevano entrare anche venti pacchetti di sigarette per ufficiali o trenta tavolette di cioccolato o quattro confezioni di latte in polvere.

Ma capì che i soldati avevano compreso. Ed una mattina notò un ammiccamento d'intesa fra due guardiani in divisa.

Decise: molta cautela.

Una sera scattò un controllo serrato e puntuale: perquisizione per tutte le donne in uscita. Fu una tragedia. Pianti, urla, minacce, licenziamenti in tronco. Quintali di materiali, perfino spazzolini da denti e dolci da compleanno e stringhe da scarpe tornarono negli scaffali.

Lei passò indenne: non le trovarono addosso nemmeno un capo di spillo, se non un pacchetto di sigarette avviato.

I poliziotti, quelli della "MP" con i cappelli rossi, la lodarono, le regalarono una confezione di pane ed un sacchetto di farina di malto, che lei non sapeva a che cosa servisse, e, poi, la rilodarono. Lei accettò congratulazioni e doni, ma reclamò per le perquisizioni di donne compiute da soldati.

La mattina successiva il comandante della logistic support area, così si chiamava allora il Foro Boario, le dette l'incarico di coordinare un gruppo di donne appena costituito per vigilare le operaie, per controllarne i movimenti, per perquisirle tutte all'uscita dal lavoro.

Era divenuta un capo, lei che era sempre stata un oggetto buttato, sfruttato, respinto.

Era venuto il suo momento che sapeva breve ma che andava vissuto per il suo ragazzo da allevare. Stabilì subito la propria legge, una legge che tutte le vigilanti e le controllate accettarono: uscire con poca roba da portare a casa o da vendere in città a prezzi alti, ma da dividere. Metà alle donne, un quarto alle guardiane disattente ed un quarto alla coordinatrice.

Fecero più danno alla logistic support area del Foro Boario, senza che nessun militare se ne accorgesse, più danno di quello che avrebbe potuto provocare una bordata di cannonate nemiche che la avesse centrata

Lei vendeva scatolette di carne, prosciutti lessati, sigarette, saponi, biancheria, zucchero e caffè, medicinali e marmellate; una volta riuscì ad avere, uno per il suo ragazzo e uno per vendere ad un vanitoso, perfino due eleganti soprabiti di vero daino, di quelli privi di maniche, usati dai motociclisti militari della support area.

Poi il lavoro, così lei lo chiamava, finì. Prima diminuì e poi cessò, perché la guerra era finita ed i soldati stranieri se ne erano andati a casa loro, un pochi per volta.

Ma lei era contenta: il ragazzo, ben educato, cresceva in fretta, era vestito di roba nuova, nutrito a dovere, frequentava una normale scuola. E lei disponeva di un bel pacchetto di quei fogli colorati con le scritte straniere che rappresentavano migliaia e migliaia di lire. Soddisfatta di tanta tranquillità e sicurezza e della ritrovata salute, una sera fece l'atto di entrare in una chiesa per ringraziare il Signore, ma un chierico scorbutico e sciocco che la conosceva la respinse con brutte parole; se ne andò con umiltà, lei così decisa, e scelse un'altra chiesa, quella piccola e povera di San Gimignano, dove don Onorio, che conosceva tutta la storia, la aiutò a pregare, a ringraziare ed a chiedere perdono ed assoluzione.

Poi trovò un lavoro vero, pesante ma pulito, adatto ad un donnone come lei. Il ragazzo crebbe, finì gli studi, andò soldato, ritornò, entrò in commercio e si fece una famiglia. Lui voleva che smettesse di lavorare, ma non riuscì a convincerla. Seguitò a faticare fino a quando gli antichi mali del corpo, che aveva avuto piaghe, dolore, umido, fame, infezioni e sogni procurati che cancellano le umiliazioni, ritornarono.

Se ne andò senza dare disturbo.

Nonostante che in casa ci fossero ancora fogli nuovi che rappresentavano migliaia di lire, non volle che comprassero per lei un posto al cimitero di Fraternita.

Scelse, e questa fu la terza scelta compiuta con volontà sua e con convinzione, il cimitero del Comune, dove ogni corpo inerte si dissolve presto e dove la terra umida cancella ogni ricordo. Lasciò anche scritto e detto che nessuno, salvo don Onorio, accompagnasse quel corpo; ma il suo ragazzo non rispettò l'ordine, e neppure quello di dimenticarla.

 

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